Incontriamo il Gastronauta Davide Paolini, guru della comunicazione del cibo, alla vigilia del suo evento Milano Golosa, che si terrà al Palaghiaccio del capoluogo lombardo dal 3 al 5 ottobre. Per parlare di cibo, vino e molto altro.

Il cibo come attrazione

Basta guardare l’ufficio di una persona, per capire che è creativa. E l’ufficio di Davide Paolini, un cumulo di carte, appunti, immagini disseminati ovunque, è evidentemente l’ufficio di una persona creativa. Qui, in uno spazio che dà proprio sulla corte di un palazzo storico (un palazzo liberty, di quelli che solo nel centro di Milano) si trova la sede di Idea Plus, la società di marketing e comunicazione fondata dal Gastronauta per eccellenza. Ed è qui che il Gastronauta per eccellenza mi riceve. Perché, oltre ad essere il curatore di una celebre rubrica sul cibo del Sole 24 Ore, oltre ad essere conduttore, per Radio 24, del programma “gastronomico” che lo ha identificato per antonomasia, Paolini è esperto in comunicazione, professionista del marketing, organizzatore di eventi. Eventi tra cui Milano Golosa, giunto con successo alla quarta edizione. Ma questo è solo uno dei molti temi che affrontiamo durante un’intervista che tocca la storia professionale di Davide Paolini, solfiti e televisione, panettieri e Roland Barthes, Expo ed Europa. Ma che comincia proprio da Milano Golosa.

CS: L’anno scorso è andata benissimo, 8.000 visitatori: quali sono le aspettative per quest’anno?
DP: Le aspettative sono di crescere, anche perché siamo cresciuti molto con gli espositori: quest’anno sono 180, l’anno scorso erano 150, quindi ci aspettiamo di crescere anche come visitatori. Penso, spero, che supereremo abbondantemente i diecimila visitatori. È stata una crescita nel tempo: siamo partiti che avevamo 120 espositori, e ora siamo quasi al pari con l’evento che organizzo a Firenze, il Taste. Addirittura, forse, Milano sta offrendo qualcosa di più sia come espositori che come visitatori, anche perché a Firenze siamo al pieno, non entra più nessuno (là si arriva a un massimo di 317 espositori, molti rimangono fuori). Ma credo che anche la piazza influisca perché molti vedono in Milano qualcosa di più legato ai buyer. Poi, due settimane dopo Milano Golosa, mi hanno chiamato, per il primo anno, a fare il direttore creativo del Festival della Mortadella a Bologna, MortadellaBò. Quindi, finito Milano Golosa, devo andare a Bologna!

CS: Quali sono gli elementi che accomunano questi eventi?
DP: MortadellaBò è un evento completamente diverso, organizzato dal Consorzio Mortadella, è su misura per un cliente; Taste è abbastanza simile a Milano Golosa. Qualche differenza ci può essere perché a Milano cerchiamo di fare molti laboratori e molte lezioni che a Firenze non sono possibili, la stazione Leopolda non lo permette, e forse anche perché è stata pensata così dall’inizio: lì ci sono i Ring del Gastronauta, che sono come dei talk show, mentre a Milano non facciamo talk show. Quest’anno, a Milano, è tutto improntato sulla spesa consapevole, e quindi in tutti gli incontri si spiegano i prodotti: come conservarli, come riutilizzarli, come acquistarli. Il fil rouge della spesa consapevole potrebbe essere anche quello della prossima Milano Golosa.

CS: Il fatto di essere inseriti nel circuito degli eventi di Expo aiuta?
DP: Non porta assolutamente niente. Anzi, addirittura credo che porti del danno perché ce ne sono tanti, e poi io non vedo alcun vantaggio rispetto all’Expo su Milano. Per quanto riguarda l’Expo, non ho una posizione particolare: vedo questo distacco da Milano e vedo che l’Expo è diventata una città a sé stante rispetto a Milano. Sono due mondi che secondo me non si sono coesi, non c’è stato radicamento nel territorio. L’Expo ha portato via energia alla città, agli alberghi, ai ristoranti; non c’è stata quella risposta che i taxisti, i ristoratori, gli operatori commerciali si aspettavano.

CS: Facendo un passo indietro alla sua storia: lei ha cominciato come comunicatore da Benetton: che cosa le resta?
DP: È stata una grossa esperienza perché, dal punto di vista della comunicazione, ho affinato molte cose che conoscevo sul campo e ho appreso una visione internazionale. È stata un’esperienza unica, irripetibile, e nel momento di massima crescita dell’azienda presso i mercati esteri, con un approccio molto particolare al marketing. Mi ha dato molto. Quel tipo di comunicazione è rimasto molto nella comunicazione del cibo, lo sta dimostrando questo fenomeno mediatico: credo che tra cibo e moda ci siano molte analogie. Ciò che ho acquisito mi è servito: ho lavorato in un’azienda che faceva tendenza e non faceva moda, questa è la grade distinzione. Credo che Benetton allora potesse essere considerato come oggi, forse, Eataly: un passe partout per l’estero, un prodotto che non è un prodotto d’élite ma un prodotto di consumo.

CS: In merito a prodotti di consumo, parliamo della moda televisiva della cucina. Qual è la sua opinione in merito?
DP: Un disastro! Credo che sarà l’inizio della fine del cibo, credo che ne sarà, non dico la tomba perché è un’espressione molto triste, però io credo che i risultati di quello che sta avvenendo in televisione li vedremo tra qualche anno. Si tratta di un’allucinazione sul cibo che non corrisponde a una realtà: i consumi alimentari dal 2007 sono in calo drastico, e poi basta guardare il rapporto tra le chiusure dei ristoranti e le aperture. La gente guarda ma non consuma.

CS: La televisione ha un modo di presentare la professione di cuoco, di chef, “eroica”, solitaria, di successo. Non rischia, questo tipo di comunicazione, di dare un’idea fuorviante?
DP: È per questo che parlo di allucinazione mediatica, perché quel trenta per cento di ragazzi che ha scelto gli istituti alberghieri per fare lo chef, e non il cuoco, secondo me è la dimostrazione di una catastrofe futura, per loro. Di disoccupazione. Però non ho nessun rispetto per chi si fa ingannare da dei fenomeni televisivi: vuol dire poca intelligenza o poca riflessione.

CS: Tra l’altro ci si concentra così tanto su un aspetto, una professione della cucina, da dimenticare le altre: non esistono i panettieri, non esistono i norcini…
DP: Non esistono i panettieri perché non ci sono giovani che, pur essendo disoccupati, vogliono fare la notte. Preferiscono andare in discoteca. In una trasmissione radiofonica su una ricerca di panettieri a 1300 euro che avevano lanciato alcune associazioni, mi sono sentito rispondere da un ragazzo intervenuto: “ma io? Ma figurati se vado a lavorare la notte per 1300 euro: piuttosto faccio il disoccupato e vado in discoteca la sera!”. Queste sono le risposte. È un allontanamento totale dalla realtà. È questo il miraggio mediatico.

CS: Un altro fenomeno recente riguarda il calo di consumi d vino…
DP: La riduzione è avvenuta per motivi economici, e, in secondo luogo, perché in Italia c’era una percentuale di alcolismo molto alta; non è che sia sparito l’alcolismo di vino, però si è abbastanza ridotto. E poi secondo me prima c’era un problema di statistiche: la statistica di Trilussa, quella dei polli! C’era gente che beveva moltissimo vino sfuso, e questo dava delle indicazioni: c’è stata una riduzione del vino sfuso, e l’alcolismo si è ridotto, per cui appare che la media si sia abbassata. Oggi il consumo è nella media europea, ma perché prima eravamo sopra la media europea. Poi c’è chi dice che si beve meno ma si beve meglio, e questo potrebbe essere successo.

CS: Io rispetto al vino avevo letto una sua espressione dell’86, “vino dei falegnami”, e poi mi aveva colpito un’altra sua espressione, non solo riguardante il vino, “giacimenti gastronomici”. Me le può spiegare?
DP: Rispetto al vino ne avevo due: una era “vino dei falegnami”, l’altra era “spremute di pinocchio”, che volevano dire la stessa cosa: era il momento in cui c’era la corsa alla barrique, che era imposta da un modello internazionale di riferimento, quello americano della Napa Valley e quello australiano, cioè di vini lavorati in barrique da 225 litri, che storicamente sono di impostazione francese. Tra l’altro l’80 per cento dei produttori che lo usavano erano incapaci, quindi mentre si beveva si sentiva molto il legno (da cui “sa di rovere” sa di qua, sa di là): io detestavo questi vini, non mi piacevano, non mi piaceva il legno. Per questo: “vini dei falegnami”. Un “giacimento gastronomico” è un prodotto artigianale, un formaggio, un salume, molto raro, che magari è irripetibile in altre zone e contiene anche una gestualità nella produzione che ricorda molto l’arte. “Giacimento” perché negli anni Ottanta molti prodotti erano sconosciuti e sono stati portati in superficie, come il giacimento d’arte: la scoperta sotto terra portata all’aria.

Il cibo come attrazione CS: A proposito di arte, lei ha fatto delle installazioni “cibo come arte, arte come cibo”…
DP: Ho fatto sei mostre d’arte in giro per l’Italia, l’ultima alla Rotonda della Besana [Milano]. Ne ho fatta una a Bologna, due tra Riccione e Rimini, una in Trentino e questa di Milano. “Cibo come arte“ perché queste erano installazioni artistiche, però, di fatto, erano anche dei prodotti che io avevo rivoluzionato: ad esempio facendo diventare una forma di Parmigiano la base di una batteria, o creando il “violino di capra”. Diciamo che erano metafore per dire: anche il cibo è arte. Credo che oggi il cibo non sia considerato arte, credo che sia molto snobbato dall’intelligentia, credo che non ci sia ancora, in Italia, questa percezione del cibo come arte. D’altronde, se uno pensa alla televisione che dà questi spettacoli è evidente: come fa la gente a pensare al cibo come arte?

CS: Quando lei ha cominciato a lavorare per la rubrica del Sole 24 Ore nel 1983, la comunicazione del cibo era scarsa…
DP: Non c’era proprio! I quotidiani non avevano delle rubriche, poi nell’86 nasce la Gambero Rosso dentro il Manifesto e quindi diventa popolare. Poi esce, l’anno dopo, Slow Food, quindi c’è stata un’evoluzione. Nell’83 esisteva questo pamphlet che si chiamava La Gola e poi c’era qualcuno che scriveva su qualche quotidiano, ma era una cosa molto rara. C’erano stati anche prima pochi mediatori culturali: Soldati, Veronelli, prima prima ancora c’era stato Paolo Monelli, che aveva scritto Il Ghiottone Errante attraverso l’Italia della ristorazione negli anni Trenta. C’era anche uno che è stato sempre dimenticato, che scriveva su Panorama, PierMaria Paoletti, che faceva delle recensioni di ristoranti. Però era “merce rara”, come si suol dire.

CS: Nel ’99 apre Radio24 e comincia il programma. Lei è sempre partito dal presupposto che il cibo fosse un fatto culturale: come si traduceva, questo, in radio?
DP: Diciamo che c’era già uno sviluppo nella moltissima comunicazione scritta. Non è che tutte le mie trasmissioni avessero contenuto culturale, ma io ho sempre cercato di raccontare delle storie dietro al prodotto. Secondo me a parlare di cibo in una certa maniera si fa cultura, parlando di utilizzare un certo prodotto in una maniera piuttosto che un’altra si fa cultura, anche a insegnare come recuperare il pane raffermo in una certa maniera si fa cultura.

CS: Lei si occupa anche di promuovere le realtà territoriali della nostra cucina: soprattutto considerando il distacco dal territorio a cui stiamo assistendo, qual è la situazione attuale?
DP: In questi ultimi anni sta venendo fuori molto, non siamo più agli anni Ottanta: oggi l’artigiano si affaccia al mondo; ce ne sono alcuni che resistono, altri meno, perché sicuramente ci sono prodotti più o meno validi e condizioni più o meno vantaggiose. Ma devo dire che il mondo è molto cambiato: oggi si va a comprare e si trovano prodotti di artigiani che sono molto lontani e che sono piccoli. C’è stato un passo in avanti, sicuramente. La contraddizione è con il surgelato del supermercato, è tra ciò che si racconta e ciò che poi si fa: molta gente racconta di questi prodotti, poi vai a casa, vai a vedere nel loro frigorifero ed è pieno di surgelati! Negli ultimi tempi c’è stata una grande vendita di ricettari: la gente li compra e poi non mangia mai a casa, mangia alla mensa o da altre parti; io credo che siano rimasti tutti nelle librerie di casa o sui tavoli per essere mostrati, ma credo che pochi, poi, li utilizzino. Queste sono grandi contraddizioni. Ma questo era già un fenomeno degli anni Cinquanta: Roland Barthes aveva messo in luce questo aspetto confrontando due giornali, uno era Elle, di taglio popolare, e parlava di alta cucina, l’altro non ricordo [si trattava della rivista L’Express; il testo a cui si riferisce Davide Paolini è Mythologies] era un giornale riservato al lettore “alto” in cui si parlava di cucina tradizionale, cucina semplice: era un controsenso. Credo che oggi permanga la stessa situazione.

CS: Roland Barthes scriveva agli albori del consumismo: ci può essere un nesso tra consumismo e banalizzazione dei contenuti (in questo caso quelli culinari)?
DP: Siamo sicuri di essere ancora molto consumisti, visto il calo dei consumi? Non so, qualcosa è cambiato, sicuramente la crisi qualcosa ha cambiato. Il consumismo oggi sta andando in direzione opposta a quella del cibo: stiamo andando verso il consumismo tecnologico, da ciò che una volta era rappresentato dalla macchina, dal frigorifero, e oggi è rappresentato dai telefonini. È un consumismo completamente diverso, quello di oggi, un consumismo di un’era che sceglie sempre prodotti per comunicare e poi non riesce a comunicare: è un non comunicare quello dei cellulari, un comunicare solo cose stupide. Comunque è una domanda difficile, non riesco ancora a capire se questa era si può chiamare ancora “del consumismo”. I consumi non sono più quelli del boom economico degli anni Sessanta, non sono più quelli degli anni Novanta, non sono più quelli della crisi del petrolio del Settantatré. C’è un’evoluzione, è una società che va avanti.

CS: Il cibo è un medium, una sorta di mezzo di comunicazione…
DP: Il cibo è essenzialmente un medium di comunicazione: è in primo luogo un medium di comunicazione del territorio e un medium di comunicazione interpersonale, ed è diventato un medium di comunicazione pubblicitario. Io credo che il cibo sia un modo di comunicare, fatta esente la fase della nutrizione e dell’alimentazione: il cibo non solo si mangia, non è soltanto qualcosa che ci permette di sopravvivere. Il cibo è un’attrazione, un’attrazione del territorio, e oggi parte del turismo è basata proprio sulla comunicazione del cibo. Ci sono luoghi in Italia che non avendo monti, mari o laghi o colline sono diventati turistici: le Langhe è un esempio concreto, senza cibo sarebbe stata una regione senza turismo, col cibo ha un numero di turisti enorme (si parla di 300mila turisti) nel week end del tartufo non si trova un posto a dormire nel raggio di 100 kilometri, e si tratta di un turismo che arriva dall’estero, il Barolo e il Tartufo sono medium mondiali. Anche nella zona delle Marche di Acqualagna è arrivato il tartufo e la Toscana è un’antesignana del turismo legato al cibo, il Chiantishire è un fenomeno mondiale: ormai se si va nel Chianti non si trova una casa dove non c’è uno straniero. Chianti e Langhe sono fenomeni mondiali, e anche il Salento sta diventando un fenomeno mondiale.

CS: Parlando di turismo: ho notato che lei fa distinzione fra turista e viaggiatore…
DP: È fondamentale: io dico sempre che il turista trova e il Gastronauta cerca. Io individuo nel Gastronauta il viaggiatore: il viaggiatore è uno consapevole, il turista è uno che va, mangia il panino e se ne torna via, prevalentemente in pullman, e anche se va in macchina non è interessato al di là del cibo. Il viaggiatore è diverso, il viaggiatore va anche a scoprire il territorio, la tradizione del territorio, la storia del territorio, non va a sbevazzare come si fa con le “cantine aperte” o buona parte di queste manifestazioni (gente che va per assaggiare il vino e basta). Il turista è questo, invece il viaggiatore è un po’ più profondo.

CS: Secondo lei c’è maggiore consapevolezza del cibo, adesso?
DP: Sì, forse rispetto a vent’anni fa sì. Credo che la diffusione dell’informazione sia servita a rendere consapevoli. Anche certi allarmi hanno aiutato in questo senso: l’aviaria, la mucca pazza, che erano allarmi fasulli (c’era ben poco di reale) hanno reso consapevole il consumatore. Da quel momento è scoppiato un click nei consumatori: voler sapere da dove veniva un prodotto, chi l’aveva prodotto. Secondo me, presso una certa fascia di consumatori, gli scandali hanno dato consapevolezza.

Il cibo come attrazione

CS: Attualmente c’è una forte tendenza ad evitare i solfiti, nel vino, o a evitare gli Ogm, nel cibo: è sintomo della consapevolezza di cui parlava o si tratta di una moda?
DP: In Italia è vietata la sperimentazione degli Ogm, questo è un errore clamoroso che pagheremo nel corso della vita: gli altri Paesi hanno vietato fino a che non hanno capito quali erano i risultati degli Ogm con la sperimentazione. Noi li abbiamo vietati a priori, e questo è già un errore clamoroso: giusto vietarli ma ingiusto vietare la sperimentazione. Questi allarmi, in Italia, sono dovuti, perché buona parte del cibo che mangiamo è Ogm: molte cose che arrivano dall’estero (grano, eccetera) chi le controlla al cento per cento? La soia, chi la controlla? Hanno beccato delle navi che trasportavano grano contaminato con Ogm. Sicuramente c’è un pericolo, ma è un pericolo che non è dato dalla sperimentazione. Quali sono gli effetti degli Ogm? Io non dico che siano positivi, per carità, però vorrei vederli. Questo è il punto. Per il solfiti, è una storia veramente incredibile! Prima di tutto i solfiti sono negativi se inghiottiti in una certa quantità. Ora la gente sostiene che certi vini bianchi (alcuni dicono vini bianchi, altri altro…) diano mal di testa: bisogna verificare se questo fatto è dato dai due litri che si bevono o se è dato da un bicchiere di vino. Indubbiamente, meno solfiti si mettono sul vino e meglio è, ma un vino senza solfiti è impossibile: il vino produce naturalmente una quantità di solfiti, che è il limite per cui nella bottiglia bisogna segnare “contiene solfiti”; questo dimostra che c’è una produzione naturale di solfiti, non è che sono il veleno assoluto. Poi però sono nati dei provvedimenti comunitari rispetto ai solfiti per definire la bottiglia “vino bio” che sono altissimi, 120 milligrammi, e questa è una contraddizione incredibile! Allora, se fanno così male, perché me li metti a 120 milligrammi? Mettilo a 30, 40 milligrammi…poi è sbagliato il discorso “vino bio”: è l’agricoltura, biologica, non il vino. Quello dei solfiti è uno di quei filoni di comunicazione che si autoalimentano. Ripeto: meno solfiti s’inghiottiscono meglio è, su questo non ci sono dubbi. Però non è solo il vino: i solfiti sono dappertutto, in buona parte degli alimentari. Il vino fa male e il resto no? E poi in molti biodinamici si ammette l’uso di solfiti (il presupposto è diverso) perché per il mantenimento di un vino non c’è niente da fare. Ci sono biodinamici che dicono “io uso solfiti”, io ne conosco tre o quattro che ammettono di usare i solfiti: usano pochissimi solfiti, ma li usano.

CS: Lei parlava di normative: ci sono parecchie polemiche sulle normative europee rispetto al cibo …
DP: Diciamo che il novanta per cento delle disposizioni che vengono da Bruxelles sul cibo sono da rimandare al mittente. Lì ci sono dei burocrati veri e propri che agiscono a seconda della loro nazionalità, a partire dalla famosa storia del lardo di Colonnata: il lardo di Colonnata deve portare un monumento a Bruxelles perché se non nasceva la legge 9323, secondo me il lardo di Colonnata era sconosciuto; si deve solo a questo la notorietà del lardo di Colonnata. Sono leggi assurde: ne potrei citare cento di questi provvedimenti! Ad esempio l’ultimo, che prevede l’abolizione dell’indicazione dello stabilimento di produzione: questa è una cosa da denuncia! Io non devo sapere in quale stabilimento è prodotto quello che io mangio?! Con Bruxelles si è cominciato a voler dare alla gente un prodotto standardizzato, non tenendo conto delle peculiarità di molti Paesi, e favorendo altri Paesi che non hanno queste peculiarità, in difesa del prodotto industriale. Basta pensare a quest’ultima trovata geniale di fare il formaggio senza latte: questo è un altro capolavoro di Bruxelles!

CS: Speriamo che finiscano i capolavori!
DP: Secondo me no, andremo anche peggio, ci saranno sempre più restrizioni, perché ci saranno sempre meno Paesi che hanno delle peculiarità: anche i Paesi dell’Est, ormai, sono invasi da stabilimenti di multinazionali; la Francia, ormai, ha quasi perduto il valore aggiunto delle proprie peculiarità; noi ce l’abbiamo, la Spagna ce l’ha, ce l’hanno altri Paesi. Però sono i Paesi più deboli: Italia e Spagna sono tra i Paesi più deboli nel sistema decisionale. Man mano che la Comunità Europea apre a nuovi Paesi, il problema resterà.

CS: Vorrei chiudere parafrasando un suo libro: in cosa consiste “Il mestiere del Gastronauta”?
DP: Il mestiere del Gastronauta è il mestiere di uno che viaggia, molto curioso, uno mangia con la testa e non con la pancia, cerca invece di trovare e poi cerca di portare quello che ha conosciuto alla conoscenza di tutti. Magari lotta anche per la difesa di quello che ha trovato e che magari sta per sparire.

CS: Secondo lei ce ne sono molti, di Gastronauti, oggi?
DP: Ce ne sono perché io ne conosco, ma non so quantificare il numero. Io vedo che molti si definiscono Gastronauti: spero che sia in questa logica!

 

Anna Giunchi

 

Origine foto 1: www.milanogolosa.it

Origine foto 2: Il gustofilo

Origine foto 3: www.comunicaffe.it

 

 

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