Una lunga intervista ad Andrea Mainardi, chef capace di passare con disinvoltura dai fornelli del suo ristorante a quelli de “La prova del Cuoco” di Rai1, per poi approdare, su Sky, nelle cucine delle famiglie italiane.

Andrea Mainardi - Un ghiacciolo di ostriche per il pranzo della domenica

Quando si dice che la cucina è passione si pensa a una frase fatta, a un cliché, a una banalità detta tanto per dire. Ma se incontri Andrea Mainardi capisci quanto è vera. Alla prima stretta di mano, al primo scambio di battute, è subito chiara una cosa: Andrea Mainardi è uno chef emozionale. Ed emozionante. Non a caso ha potuto affiancare con successo, alla ristorazione, una carriera televisiva che lo ha portato dalla corte di Antonella Clerici in Rai a Fox Life con un programma che ha il suo nome, “Ci pensa Mainardi”. Così, in questa mattinata milanese, in un bar del centro, vengo travolta dalla personalità di un giovane chef che si apre senza remore sui molteplici aspetti della sua vita: l’infanzia e la scuola nella bergamasca, la formazione presso grandi maestri, l’apertura del suo ristorante dall’unico tavolo (“Officina Cucina”, a Brescia) e poi ancora il rapporto con il pubblico, con le donne e con l’amatissima figlia Michelle. Con il grande collante, ovviamente, della cucina. Ma le prime battute, ancora prima che possa accendere il registratore, sono per l’entusiasmante esperienza televisiva.

AM: Fox Life è “La casa delle emozioni”, “emozione” è la parola che deve accompagnarmi sempre. Io stesso sono un ragazzo emotivo, così hanno costruito un format cucito su di me: il concetto è comunicare la cucina raccontando storie di famiglie italiane. C’è un team talmente in armonia che posso utilizzare tutte le mie energie per concentrarmi sulle emozioni delle famiglie o delle persone con le quali collaboro. Mi viene la pelle d’oca solo a parlarne! Uno pensa che in televisione sia tutto costruito, invece sono storie vere. Io voglio “arrivare” alle persone, sia con le azioni che con i miei piatti. Mi devo rapportare a persone diverse, dal ragazzo che lascia in giro i cartoni della pizza alla mogliettina che arriva a casa e non ha voglia di fare niente, tira fuori le prime cose che trova in dispensa o dice “dai, andiamo al ristorante”. Quindi le ricette devono essere sì ricercate ma anche semplici da replicare, chi osserva può provare anche a rifarle. Ed è bellissimo vedere sui social che le persone postano le fotografie dei piatti che hanno cucinato, o il riscontro che ho quando faccio un evento in un Centro Commerciale…l’altro giorno sono andato in un parco acquatico per un evento: sono arrivati tre bambini di sette/otto anni con scritte sulle mani come faccio io nel programma! [È il modo con cui vengono dati i voti in “ci pensa Mainardi”] A “La prova del cuoco” era un pubblico diverso, di signore: quando vado a fare la spesa mi saltano addosso e poi le porto in giro con il carrello, mi piace! Io ci sono perché loro mi guardano e questo me lo ricorderò sempre. E poi terrò sempre Antonella [Clerici, ndr] in considerazione perché è lei che mi ha lanciato. La mia Clerici, guai a chi me la tocca! Antonella è una donna eccezionale dal punto di vista professionale, ha occhio, è molto lungimirante. Mi consigliava di stare attento con le ragazze, il mio neo! E comunque il suo consiglio era di non cambiare mai, di non scendere a compromessi, di essere quello che sono, perché poi alla gente piace.

CS: Si era molto affezionata di sicuro…
AM: Io ho lasciato “La prova del cuoco” lunedì 23 marzo 2015, e ho pianto come un matto! Lei il lunedì prima, nel dire “sono orgogliosa di te” (non aveva annunciato che era la penultima puntata, ma lo sapeva già) si è commossa e mi ha abbracciato! Non pensavo…Ci sentiamo tuttora: lei sta aprendo un ristorante in un centro commerciale, e mi vuole lì. “Vola Andrea, vola” mi aveva detto: me l’ha detto con il cuore in mano, in camerino, prima che me ne andassi. È una persona autentica, una super professionista…e guai per i suoi cuochi! È un rapporto che va anche al di là dell’amicizia, è un rapporto speciale.

CS: Com’era nata l’idea di andare in televisione?
AM: Una certa Cristina Bracali, una ragazza fantastica che si occupa di reclutare personaggi, penso che abbia visto il mio sito internet, o comunque ha saputo di me muovendosi nella ristorazione. Poi, un po’ il colore dei capelli, gli orecchini, il fatto che sono un po’ fulminato e che ai tempi portavo due orologi…! Mi è arrivata questa chiamata, ho fatto un provino e da lì è nato tutto.

Andrea Mainardi - Un ghiacciolo di ostriche per il pranzo della domenica

CS: Parlando di Officina Cucina, il ristorante con un tavolo: secondo me ha molto a che fare con il fatto che vuoi comunicare attraverso la cucina, perché l’idea di un solo tavolo rimanda all’idea di ospitare…
AM: Secondo me la cosa che manca, anche adesso, in Italia, è il senso di accoglienza: noi eravamo i numeri uno dell’accoglienza, adesso invece sembra solo che vogliamo “fregare i turisti”. È inutile poi che ci lamentiamo perché non c’è lavoro! Io volevo un ristorante da “pacca sulla spalla”, che, anche se non ci conosciamo, diventiamo amici. Volevo un ristorante del “buon ricordo”. Mangi e bevi quello che dico io, e faccio la figura del presuntuoso forse, ma così percepisco la tua fiducia nei miei confronti e ti ripago con il seicento per cento delle mie energie. Con la televisione, gli eventi da tutte le parti, adesso ho dovuto delegare. Ma per arrivare alla mia idea di ristorante mi sono fatto veramente “un culo”: a parte Gualtiero Marchesi, a parte studiare sui libri, a parte la scuola alberghiera, ho girato un sacco di ristoranti stellati Michelin per imparare. Certo, quando a ventitré anni ho aperto “Officina Cucina”, non avevo questa potenza psicologica, non avevo un’idea di cucina ben delineata. Scopiazzavo: andavano di moda le gelatine, la cucina molecolare, quindi le portavo a tavola, e a Brescia c’è una clientela piuttosto “zuccona”…figurati a portare a tavola le gelatine o cose del genere! Mi ricordo una frase (terza o quarta cena, ristorante appena aperto): “non hai due fette di salame”?! Non è stato così semplice, qualche bastonata l’ho presa. Nel ristorante “normale” il cameriere, il maître che sia, prende la comanda, assorbe i commenti positivi e negativi dai clienti e poi, come vuole, li reinterpreta e li porta al cuoco, che sta in cucina. Io credo fortemente che il cuoco debba evolversi, non perché penso che debba stare fuori dalla cucina (il suo posto è lì) o perché debba fare una cucina diversa da quella che piace a lui (altrimenti non riuscirebbe a esprimersi) ma il cuoco, prima di tutto, prima di saper cucinare, deve parlare con le persone. La mia evoluzione la devo, oltre che a Gualtiero Marchesi, oltre che ai maestri che ho avuto, a questo contatto con i clienti. Oggi i ristoranti sono tutti uguali, i prezzi sono quelli e tutti fanno a gara: è il rapporto umano che fa la differenza.

CS: Infatti il tuo ristorante è un’innovazione, ma l’idea rimanda a qualcosa che è radicato nella storia, l’idea di cucina come comunicazione, l’idea di ospitare…
AM: È il senso della famiglia. Io sono cresciuto con il valore della domenica: la mamma, il papà, i bambini, gli amici, due piatti in mezzo al tavolo, due bottiglie di vino. Sono del 1983, epoca a cavallo tra il pranzo della domenica e “la domenica dormo perché la sera prima sono andato in discoteca”, ma mia figlia il pranzo della domenica non sa nemmeno cos’è. Io voglio ritornare a quello. Non parlo di tradizione perché non me ne frega niente: “rivisito la tradizione” è una frase che non sopporto, io faccio la mia cucina con i miei valori, riesco a portare la persona che sono nel privato anche nel lavoro. Sono una persona positiva, mi piace donare energia positiva, i problemi li ho anche io ma li tengo per me.

CS: Tu parli tantissimo delle tue radici, dei tuoi ricordi infantili legati alla cucina…
AM: Da bambino, siccome volevo provare questa cosa della flambatura, nello spadellare avevo usato un po’ di grappa, un po’ troppa grappa (la grappa è “una potenza” a Bergamo) il fornello era al massimo, la cappa della casa è bassa e il tutto ha “sfiammato”. Mia mamma ha chiamato la vicina di casa con un estintore…un casino! Ma ho sentito l’energia del fuoco, dell’alcol che evaporava! Poi una volta in cui ho fatto la crema pasticcera e l’ho messa nel frigo ancora calda perché volevo mangiarla subito: il frigo si è rotto! E poi i ricordi mi riportano anche a mia mamma che mi grattugiava la mela nella grattugia di vetro, che io nel mio ristorante ho, non la uso quasi mai ma ce l’ho (ormai è tutto acciaio, c’è poca poesia). Oppure ho il ricordo di mio padre che “sgommava” con i rebbi della forchetta il risotto sui bordi del piatto per farlo raffreddare. E ancora la meravigliosa scuola alberghiera a San Pellegrino, dove ho passato cinque anni splendidi: ero più attento alle ragazzine e alla cucina che a studiare, e poi copiavo tutti i compiti sul pullman…adesso mia madre leggerà l’intervista e si incazzerà come una bestia! Alla scuola alberghiera ho avuto dei professori davvero molto bravi, soprattutto a trasmettere la voglia di cucina; durante la scuola ho fatto degli stage in grandi ristoranti (mio padre ci teneva tantissimo) e, finita la scuola, vacanza a Riccione con gli amici per “sbragare”…e poi Gualtiero Marchesi!

Andrea Mainardi - Un ghiacciolo di ostriche per il pranzo della domenica

CS: Proprio in merito, la tua formazione culinaria annovera nomi importanti: Berton, Marchesi, Fasolato, Paolo Vai…
AM: …e anche Fabio Sessini, chef executive a Baja Sardinia, di una bravura estrema: mi aveva portato da lui un professore di sala a fare la stagione, in un ristorante davvero strafigo, il Casablanca, era il primo anno di scuola. Mi chiamavano Pio Pio perché ero biondino, con la faccia da ragazzino da schiaffi. Mi avevano messo in camera con un capopartita di un albergo della Barbagia, sembrava uno che ammazza gli orsi con le mani, io lo vedevo come un eroe, come Capitan America! Era la mia prima stagione e mi facevano scherzi da militare: “vai a prendere la cenere per fare le patate sotto la cenere” (anche se le patate sotto la cenere si fanno sotto la legna con la carta stagnola) “vai in cella a prendere l’olio di gomito!” (due ore passate in cella); una volta abbiamo bevuto qualche lattina di birra tutti insieme, poi hanno detto “Mainardi è il primo che può andare in bagno perché è il più piccolino” e hanno messo la pellicola sul water smontando la lampadina! Sono cose che fanno crescere. Se incontravi uno chef come Sessini e gli piacevi, prima di tutto creava il carattere: lui mi ha forgiato, mi ha fatto entrare nel lavoro. E io piangevo, eh, era gavetta! Mi piacerebbe che i ragazzi di oggi, quelli che finiscono la scuola alberghiera, mandano il curriculum nei ristoranti e vogliono due o tremila euro, facessero gli stage come li facevamo noi. E poi un’esperienza fondamentale è stata da Gualtiero Marchesi con Berton, che ha completato la mia formazione.

CS: Com’era Berton?
AM: Berton era una persona eccezionale, un professionista serio e con grandi doti. Quando arrivava il pesce, che era una parte molto delicata a cui teneva molto, era lui che sfilettava, perché sfilettare era un gesto d’importanza, poi lui è bello grosso, svelto, metteva i guanti, usava i suoi coltelli. Io dovevo squamarlo, tirar via le branchie, e intanto lui sfilettava…e non poteva aspettare! Mi faceva venire un’ansia: ce l’ho ancora adesso nel raccontarlo! Ogni chef mi ha dato qualcosa di differente in differenti periodi della vita: Sessini prima, quindi Corrado Fasolato alla Siriola a San Cassano, genio assoluto, che mi ha dato quello sprint di creatività. E poi Berton mi ha completato il carattere: se sono quello che sono adesso lo devo a Berton.

CS: Io ho letto una frase di Marchesi che tu citi in una tua intervista: “Vedi il tuo piatto? Guarda come lo assaggia il cliente. L’hai preparato con le tue mani”. Perché questa frase ti è rimasta così impressa?
AM: Perché è l’emblema della filosofia di cucina di una persona che è un orgoglio nazionale. L’Italia non è che abbia una grande immagine a livello internazionale, e se la cucina è una di quelle realtà che ci danno lustro a livello internazionale, lo dobbiamo anche a lui! Da quella frase ho capito che un cuoco non può star solo in cucina, deve avere un occhio sulla sala, perché tu fai quello che vuoi, ma se poi non piaci là, non va. Io sono chef titolare, è questa la grande differenza: se sono solo lo chef (me ne frego no perché comunque ci metto la mia faccia) certamente posso spingere con gli ingredienti, spingendo al limite. Se sei il titolare ti assicuro che le cose cambiano!

CS: Pensando ai tuoi colleghi di oggi: a chi ti senti più affine?
AM: Io mi sento affine non tanto in termini di cucina ma da un punto di vista caratteriale. C’è Daniel Facen dell’Anteprima di Chiuduno: genio assoluto, un amico con cui ho un rapporto molto bello. C’è Matteo Torretta, altro pazzo scatenato: ci sentiamo una volta all’anno adesso, magari lui mi chiama, io lo richiamo dopo tre mesi e lui mi insulta! Poi abbiamo la stessa età, anche lui eccezionale, un “toro imbufalito”, una persona spontanea, fresca. Devo dirti che mi piace molto Bruno Barbieri: ci siamo sempre incrociati qua e là, io ovviamente conosco molto bene lui; poi ci siamo incontrati di recente e, anche se lui stava parlando con delle persone, si è girato, mi ha dato la mano e mi ha detto “Mainardi, complimenti!”; detto da uno chef “potente” devo dirti che è bello. E poi ho un bellissimo rapporto anche con Philippe Léveillé del Miramonti l’Altro perché è delle mie zone [il famoso ristorante, due stelle Michelin, è a Concesio, nei pressi di Brescia] e perché è un mio amico. E poi Berton, anche se è un po’ che non lo sento perché ce l’ha un po’ con me…

CS: Perché?
AM: Perché mi aveva messo in contatto con Ferran Adrià tramite il fratello, e sarei dovuto andare a lavorare da lui, Berton aveva speso delle parole per me. Io una notte ho fatto il matto e ho deciso di andare a convivere con una donna che ora è la madre di mia figlia. E ovviamente lui, anche se leggerà quest’intervista, non me la perdonerà mai! Mi spiace che lui abbia ancora questa cosa nei miei confronti, ma la capisco, e la accetto. D’altra parte sono contento per la mia professione: se fossi andato da Ferran Andrià magari mi sarei evoluto troppo dalla parte della cucina molecolare, mentre io sono riuscito a creare il mio stile di cucina. E poi, soprattutto, non avrei mia figlia!

Andrea Mainardi - Un ghiacciolo di ostriche per il pranzo della domenica

CS: In merito alla tua cucina: un ghiacciolo di ostriche, limone e liquirizia, che è il tuo piatto emblematico…
AM: In questo piatto c’è molto della mia cucina: nel mio ristorante c’è un solo tavolo, tante portate, piccole porzioni, e quando ci sono piccole porzioni puoi esasperare temperature, cotture. Cercavo un pre-dessert, mi sono scervellato e ho messo insieme un po’ di cose. C’è un famoso gelato al limone con lo stecco di liquirizia: buono, non si può dire niente. Dall’altra parte ci sono le ostriche: o le mangi nude e crude o ci metti un po’ di tabasco e del pepe, o una spruzzatina di limone. Quindi il limone è l’elemento comune, la liquirizia da una parte e l’ostrica dall’altra. Tu la Nutella la preferisci con i biscotti, dolce su dolce, o la preferisci sul pane, sul cracker o su un grissino? Vai sul salato. Il melone, per enfatizzare la sua dolcezza, il suo profumo, ha bisogno di un granello di sale. Il contrasto dolce-salato serve! Ho pensato: se sul sorbetto limone e liquirizia ci metto un granello di sale potrebbe veramente “esplodere” in bocca con un sapore eccezionale, e c’è l’ostrica che viene dal mare, è molto sapida. Quindi ho porzionato tutto: la liquirizia è potentissima, per cui un piccolo strato di liquirizia, un sorbetto al limone, un velo di acqua di ostrica che dà il sale…e c’è anche una differenza di consistenze, perché la liquirizia è uno sciroppo, come una sorta di lecca-lecca, il sorbetto al limone è più un gelato, da masticare, e l’acqua dell’ostrica è più un ghiacciolo: ti assicuro che è un’esperienza da vivere! La vedo così: limone e liquirizia marito e moglie, ostrica e limone due amanti, tutti insieme fanno una grande famiglia, una famiglia moderna!

CS: In tema di famiglia, hai dichiarato: “ciò che mi emoziona di più cucinare sono le lasagne perché è il piatto preferito da mia figlia”…
AM: Il mio modo di giocare con lei è cucinare con lei. Mi piace l’idea di tritare con lei carote e cipolle, sapendo che a lei non piacciono le cipolle: in questo modo riesco a fargliele mangiare, le metto nel ragù e non se ne accorge. Stuzzicandola così, mettendola alla prova, stiamo insieme per dei pomeriggi, e lei è contenta perché sta con il suo papà. Andiamo a fare la spesa insieme: ovviamente ci scappa qualche patatina e qualche briochina, la lattina di Coca Cola, perché è giusto che si appaghi anche un po’, ma cerco anche di far evolvere il suo palato facendole assaggiare tutto. Le lasagne sono il suo piatto preferito: molte volte vado a prenderla a scuola, a ginnastica artistica e non ho tempo di preparargliele, quindi le ho surgelate, in mezz’ora di forno sono pronte, e nel frattempo gioco con lei. E comunque penso che la lasagna sia un piatto che crea convivio, che fa famiglia. Adesso penso, con un po’ di presunzione, di essere diventato un buon padre: anche nel poco tempo che le do, riesco a darle tutto me stesso. E il valore della cucina mi sta aiutando un sacco a fare il padre. Magari mentre io trito la carne con il robot lei tira la pasta frolla e fa i biscottini a forma di cuore. Poi prepara la tavola e apparecchia anche per le bambole (che poi “fa sedere”): a casa nostra magari siamo solo io e lei, ma c’è una tavolata per venti persone!

 

Anna Giunchi

 

Origine foto www.officinacucina.com

 

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