Si è appena concluso We Feed The Planet, evento che si è tenuto a Milano tra il 3 e il 6 ottobre 2015, e ha portato nel capoluogo lombardo piccoli produttori alimentari da tutto il mondo.

Nutrire il pianeta per cambiare il pianeta

Vengono chiamati small scale producer. Sono produttori alimentari di piccole dimensioni (“small scale”, appunto) e si sono incontrati a Milano dal 3 al 6 ottobre 2015. Lo scopo? Partecipare ad un evento organizzato dalla Rete Giovani di Slow Food (Slow Food Youth Network) insieme a Slow Food, a Fondazione Terra Madre e all’Università di Scienze Gastronomiche di Bra e Pollenzo (Cuneo). L’evento si chiama We Feed The Planet e si interroga sul futuro alimentare del pianeta. Con uno sguardo unico: quello che i giovani. Perché We Feed The Planet non solo esiste grazie all’iniziativa della Rete Giovani di Slow Food, ma porta a Milano proprio loro, i giovani: 2500 tra contadini, allevatori, pescatori, produttori caseari, studenti e chef provenienti da 120 Paesi in tutto il mondo. Sono andata a conoscerli durante la seconda giornata, domenica 4 ottobre, per sentire direttamente dalle loro voci le ragioni, i timori e le speranze della generazione che, come dichiara il titolo dell’evento, nutrirà il pianeta.

La cosa più importante è che i giovani parlino tra di loro” mi dice Joris Lohman, olandese, classe 1985, presidente di Slow Food Youth Network. “Abbiamo quattro giornate: ieri riguardava la Connettività, oggi è centrato sui cosiddetti Food Heroes, grandi persone che conoscono molte cose e possono ispirarci e farci riflettere. Ci permetteranno, in futuro, di costruire le nostre idee, perché l’evento riguarda il cibo nel futuro. Martedì presenteremo queste idee all’Expo. Ma non vogliamo avere soltanto i grandi. È importante che ci possano ispirare perché noi possiamo creare le nostre idee.”

Origine foto: www.stedenintransitie.nl

Origine foto: www.stedenintransitie.nl

I Food Heroes a cui accenna Joris, oltre al celebre presidente e icona di Slow Food Carlo Petrini, sono figure come l’economista e filosofo francese Serge Latouche, guru della ‘decrescita serena’, o il presidente di Substainable Food Trust, il produttore caseario britannico Patrik Holden, tutti protagonisti di conferenze gremite ed appassionate tenutesi durante la giornata. Ma Joris sottolinea un altro obiettivo centrale di We Feed The Planet: essere una risposta ad Expo. Nell’anno in cui l’Esposizione Universale si chiama Feeding The Planet la nuova generazione deve lottare perché i ‘piccoli’ dell’alimentazione possano farsi sentire: “ci siamo resi conto che c’era una voce che mancava. Era la voce dei piccoli produttori, dei contadini, dei giovani professionisti dell’alimentazione che nutriranno il pianeta nel futuro. Ne abbiamo invitati quanti più potevamo, giovani da oltre cento Paesi nel mondo venuti a Milano per far sentire la propria presenza nel futuro dell’alimentazione”.

Nutrire il pianeta per cambiare il pianeta

Per permettere che produttori, contadini, professionisti dell’alimentazione potessero partecipare all’evento, i giovani di Slow Food hanno utilizzato una via ‘aperta’ e ‘collaborativa’: una campagna di crowdfunding che ha sostenuto le spese di viaggio. Il successo di questa operazione ha permesso di portare giovani dal Canada e dalla Tailandia, dalla Georgia e dal Brasile. E anche dal Kenya: è il caso di Samson Kiru, attivista Slow Food dal grande sorriso e dall’entusiasmo contagioso, impegnato nella lotta per la difesa della coltivazione tradizionale deli orti in un luogo particolarmente complesso. “In Kenya abbiamo comunità molto legate al passato, che coltivano secondo metodi antichi e danno molto valore al cibo tradizionale” spiega, ma aggiunge “il nostro governo non si sta muovendo bene: adotterà gli Ogm, una brutta storia. Noi ci sentiamo in dovere di parlare ai contadini che hanno dato da mangiare al mondo, al pianeta, dobbiamo spiegargli cosa significa coltivare gli Ogm: da noi c’era cibo tradizionale che è stato coltivato per anni, per ere, per secoli, e gli diciamo ”. A parere di Samson il quadro, nel suo Paese, è complesso: “la situazione è mista, ci sono persone che sono convinte che gli Ogm siano una cosa buona perché permettono di produrre di più; noi siamo preoccupati perché, a causa degli Ogm, si perderanno le varietà tradizionali a causa della contaminazione. Ma siamo speranzosi, crediamo che la situazione volgerà comunque per il meglio”. La grande fiducia che ispira Samson è evidente, e riflette lo sguardo di chi, giunto a Milano con difficoltà e fatiche, sa di poter contare su un gruppo che condivide gli stessi ideali e le stesse aspirazioni. “I ragazzi che sono arrivati, anche se sono stanchi, hanno qualcosa da portare. Senti che hanno la capacità e l’energia per cambiare questo sistema alimentare, oggi davvero problematico. Ricordo il discorso di John Kariuki [il leader di Slow Food Kenya] che è stato molto incoraggiante: ci ha detto che dipende da noi, che dobbiamo fare qualcosa per la prossima generazione. Ricordo pure il discorso di Raj Patel [celebre attivista e giornalista britannico particolarmente concentrato sulla questione dell’alimentazione mondiale] anche lui molto incoraggiante: ci ha fatto capire che noi abbiamo la responsabilità di agire, mi ha molto colpito quando ha detto che dobbiamo fare qualcosa per quelli che oggi sono bambini, per quella generazione che non incontreremo mai. Sono certo che quando torneremo nei nostri Paesi avremo un sacco di energia e potremo portare avanti attività per le quali le prossime generazioni potranno essere orgogliose di noi”. Infine aggiunge “la prossima rivoluzione non sarà la rivoluzione francese: sarà la rivoluzione alimentare!”

Ma We Feed The Planet non accoglie soltanto chi proviene dall’altra parte del globo: molti, naturalmente, sono i giovani che provengono dalla nazione che ha visto la nascita di Slow Food, l’Italia. È il caso della molisana Serena di Nucci, 26 anni. Eccetto per la provenienza, Serena sembra avere molto in comune con Samson: in primis la lotta per preservare le tradizionali produzioni alimentari. Dopo la laurea all’Università di Scienze Gastronomiche a Pollenzo, Serena è tornata nell’azienda di famiglia, una ditta casearia vecchia oltre tre secoli e mezzo che si trova nell’Appennino ai confini con l’Abruzzo, “i territori marginali d’Italia”, come lei stessa li definisce. Un’azienda che vive tutte le difficoltà delle attività di quel tipo, ma che la riempie d’orgoglio: nonostante l’area sia sotto la scure dei tagli e delle tasse, nonostante veda un importante spopolamento giovanile, è il luogo in cui Serena ha scelto di tornare e per cui lottare, perché “di grande valore ambientale e di grandi valori”. La giovane è anche attivista Slow Food, e si è avvicinata all’associazione di Petrini per la sua capacità di creare una forte rete che unisce piccoli produttori legati al territorio. “Io sono stata folgorata durante il Cheese [evento sui latticini che si tiene ogni anno a Brai] sei anni fa: allora sono entrata anche in contatto con l’Università di Pollenzo, e ho incontrato un ambiente che accettasse la mia pazzia, quella di continuare ad essere produttrice, di continuare a ‘mandare avanti la baracca’ in un territorio assolutamente marginale. Mi sono trovata non sola, ecco. Cosa che invece tante volte sono, nel territorio d’appartenenza”. D’altronde, la capacità di Slow Food di far uscire i piccoli produttori dalla solitudine, la capacità di creare un gruppo che condivida le medesime lotte, è fondamentale: “è l’unico mezzo di difesa che abbiamo, specialmente noi della nuova generazione. È una difesa di ciò che ognuno di noi realizza, dal produttore al consumatore allo scienziato al ricercatore, ed è una difesa che viene condivisa in questa rete e genera rumore, genera movimento. E questo è fondamentale.” Serena si occupa, in particolare, della comunicazione dell’azienda Di Nucci, compito paradossalmente complesso in un’epoca in cui la comunicazione del cibo è dominante: “io sono molto in linea con quello che diceva Carlo Petrini in questi giorni; si è detto, fondamentalmente, che mai come in questo momento di ‘pornografia del cibo’ c’è stata una grande ignoranza riguardo al cibo. Parlare di cibo adesso significa parlare della star di turno che è diventato il cuoco, parlare della food blogger di turno che tante volte si arroga il diritto di essere cuoco, mentre essere cuoco è una professione, così come una professione è essere produttore”. Serena puntualizza che “non è una polemica contro il mondo dei cuochi, la professione del cuoco era una professione marginalizzata, fino a qualche anno fa. Però nel mondo del cibo noto un’esagerazione di questi ruoli, ci si presta a fare i testimonial di industrie: sei uno chef stellato, fino all’altro ieri ti sei riempito di chiacchiere sulla sostenibilità, su quanto è bello il tuo produttore che ti porta le verdurine fresche, piuttosto di quanto sei bello tu, a coltivarti in prima persona le verdurine, e poi cosa fai? Uno chef meridionale che fa la pubblicità del Gorgonzola, uno chef stellato Michelin che fa la pubblicità della San Carlo: sono incoerenze che, in quanto così palesi, sono al livello del populismo, che è un’altra grave ombra sul mondo del cibo.” La prospettiva con cui We Feed The Planet guarda al cibo, naturalmente, è antitetica, perché “si parla di cibo ad un livello diverso, non dico superiore, ma sicuramente meno mediatico perché più scomodo: significa trattare il cibo in maniera ‘reale’, in maniera prospettica, in maniera futuribile, di sostenibilità. Il cibo come è impostato ora è una moda, passerà, quello che rimane è eterno, non ha prezzo. Come diceva Petrini il cibo è un valore, e bisogna aggiungere valore al cibo oggi, perché altrimenti domani non potremo più.”

Il cibo è un valore, ieri, oggi, e domani. Questo valore, eterno ed universale, è, concretamente e metaforicamente, nelle mani di uno degli altri produttori che ho la fortuna di incontrare, Juan Diego Hernandez Cortes. Juan ha portato con sé dei piccoli sacchetti di sale, che dona a chi incontra: è il sale che produce lui stesso nel Paese in cui è nato, il Messico. È un sale totalmente diverso da quello a cui siamo abituati, dalla forma irregolare e dal sapore articolato, di mare, di piante; un sale che sa della realtà da cui proviene. Una realtà, la sua, antichissima: “la mia produzione è molto tradizionale, risale a 400 anni fa, ma in realtà si è cominciato a produrre oltre 200 anni prima di Cristo in un modo differente, che poi è stato modificato”. Anche l’azienda di Juan utilizza metodi tradizionali, ma “è molto difficile far capire alla gente chi siamo e cosa facciamo. Stiamo cercando di trovare qualcuno che acquisti la nostra produzione, perché questa produzione si sta rovinando. La gente non la conosce, i prezzi sono bassi e le persone vogliono pagare il nostro sale meno di quanto si dovrebbe” e infatti “la gente che produce il sale non vive della produzione di sale, dobbiamo trovare un altro lavoro”. Juan non punta solo a vendere il proprio sale, ma vuole far capire chi sono i produttori come lui e come fanno a produrre, e mi spiega che il suo “è un sale organico, ci vuole molto tempo per farlo, circa un mese o due. Dipende dal clima, abbiamo un clima molto duro nel paese in cui vivo io: abbiamo fino a 40-50 gradi quando fa caldo.”

Nutrire il pianeta per cambiare il pianeta

Fortunatamente, e Juan ne è una testimonianza, la produzione tradizionale, in Messico, è ancora un valore. Me lo conferma Eduardo Correa Palacios, anche lui messicano, chef e attivista di Slow Food, secondo cui “il Messico ha una certa cultura alimentare ‘resistente’. I contadini rifiutano di abbandonare le proprie colture, rifiutano di abbandonare le proprie terre. Purtroppo subiamo forti pressioni da parte dei nostri vicini del Nord [gli USA] che vorrebbero spingerci al consumo di cibo industriale, ad importare la maggioranza del cibo che consumiamo. Da noi c’è il TLC [Tratado de Libre Comercio de América del Norte -più noto con la sigla inglese NAFTA – North American Free Trade Agreement] che permette a prodotti economici di venire dagli Stati Uniti al Messico. C’è una statistica allarmante, ad esempio, che dice che siamo i maggiori consumatori di mais al mondo, ma ne produciamo solo circa trenta tonnellate all’anno, questa è la produzione locale, e ne importiamo circa ottanta mila tonnellate.” La situazione messicana risente moltissimo delle pressioni di sistemi economici più forti perché se “la gente capisce la differenza tra il mais ibrido e le varietà native di mais, è una situazione molto fragile, particolarmente preoccupante nelle aree urbane, dove siamo molto staccati rispetto alla fonte del nostro cibo. Io vivo a Città del Messico, e anche se nella città c’è un’area rurale molto viva e vibrante, nessuno ha idea del fatto che esista: acquistiamo i nostri prodotti ai supermercati, agli store, eccetera”. Un cuoco come Eduardo, ovviamente, è particolarmente sensibile alla questione dell’origine e dell’ ‘originalità’ degli alimenti: “è vitale avere la biodiversità ed evitare la standardizzazione, poiché ogni piatto, ogni ricetta sarà diversa, unica. Anche se cerchi di ottenere una versione ideale della tua ricetta, resterà questa varietà, questa diversità tra gli ingredienti che ti porterà ad avere sempre una ricetta diversa.” La ragione per cui il giovane chef si è avvicinato a Slow Food è proprio legata alla necessità di difendere le produzioni ed i prodotti locali, condizione centrale perché una professione come la sua abbia un senso. Anche se, è lui stesso a spiegarlo, il movimento, in Messico, aveva perso di mordente: “quando sono entrato in contatto con il movimento è stato attraverso un mio amico, che era consigliere internazionale di Slow Food; sapeva che stavo lottando di portare avanti la mia professione di chef e quindi mi ha fatto entrare. Il movimento, allora, era piuttosto stagnante, piuttosto ‘vecchio’, e chi c’era dentro aveva forse perso l’energia necessaria a portare avanti l’attivismo e le dinamiche che un movimento come Slow Food dovrebbe avere. Dovrebbe esserci sempre un livello ‘base’, invece lì ci si era spostati verso la sfera d’élite, dei gastronomi.” Com’è avvenuto, allora, il cambiamento di Slow Food Messico? “Attraverso i giovani! Attraverso gioventù e passione, portando avanti il progetto. Naturalmente coinvolgendo chi era più vecchio di noi, spingendolo a parlare, perché solo i più vecchi hanno l’esperienza, solo i più vecchi hanno le competenze. Noi invece abbiamo l’energia, la spinta, l’emotività necessarie per occuparci di cose come queste.”

L’energia, l’entusiasmo, la spinta della gioventù sono proprio la chiave per la nascita della Rete Giovane di Slow Food. E le due protagoniste della mia prossima chiacchierata sono davvero giovanissime: le poco più che ventenni Giulia Lombardo Pijola e Martina Laura Miccione, entrambe provenienti dalle fila della sede di Bra dell’Università di Scienze Gastronomiche, entrambe figure centrali per l’organizzazione della quattro giorni di We Feed The Planet. Insieme ai compagni universitari, agli esponenti della condotta milanese di Slow Food e ad appartenenti dell’associazione meneghina Cinque Vie, le ragazze si stanno occupando, oggi, di Eat-In, “evento gastro-politico”, come lo definisce Giulia, tradizionalmente legato alle manifestazioni Slow Food: si tratta di cene ‘aperte’ che si concentrano su un nodo specifico del sistema alimentare (in passato, ad esempio, il Taste the Waist, con cibo di scarto riciclato per l’occasione, o il From Head To Tail, che vedeva l’utilizzo di tutte le parti degli animali, o il Blind, cena bendata finalizzata alla ‘scoperta’ del cibo). Per la prima volta, però, l’Eat-In viene portato a Milano: “prima l’avevamo fatto a Bra, legato all’Università, o legato agli eventi Slow Food, quindi a Genova e a Torino. A Milano non era mai stato fatto e abbiamo pensato che fosse un’occasione importante, questa di We Feed The Planet, per uscire al di fuori del nostro ambito ‘slowfoodiano’ con questo format”. Si arriva così all’organizzazione di una tavolata in pieno centro (via Zecca Vecchia, dietro via Torino) in cui gli invitati sono, oltre a studenti universitari e delegati di Slow Food, anche i cittadini milanesi, per un totale di 350 persone: “tutti sono invitati a portare cibo da condividere, ma poiché i delegati non possono cucinare ci siamo occupati di preparare del cibo per loro” mi dice Giulia, e prosegue “come l’abbiamo preparato? Andando a recuperare ieri dai mercati rionali milanesi, dai ristoranti e da botteghe alimentari, produttori eccetera, donazioni e soprattutto cibo di scarto. Ci siamo divisi in squadre e abbiamo recuperato a costo zero tutto quello che sarebbe stato buttato. E stamattina le squadre che si occupavano della cucina sono andate nelle cucine milanesi a cucinare”. Giovani ma estremamente mature e determinate, le due ragazze sembrano aver avuto un percorso che le accomuna ad altri coetanei, profondamente colpiti dall’esperienza universitaria: Martina spiega che, grazie all’ateneo di Bra, “per la prima vola ho capito che si può cambiare il mondo, sembra una banalità ma è vero! Lo capisci, e quando lo capisci è una rivelazione gigantesca e devi entrarci per forza, non hai alternative, perché se è quello che vuoi fare devi essere in mezzo. Ho avuto la sensazione tangibile che si può cambiare il mondo”, mentre Giulia racconta “per me è stata una rivelazione assoluta! Ho pensato, wow, il cibo, che unisce tutti (e questa però è un’arma a doppio taglio, perché tutti quanti ci crediamo esperiti di cibo, perché tutti quanti mangiamo) e se tutti quanti cambiassimo nel piccolo, se tutti quanti cominciassimo, almeno, a porci delle domande, sarebbe già una cosa gigantesca!”. L’idea che sta dietro l’Eat-In, che è quella di We Feed The Planet, è quindi a lungo termine; è Giulia a spiegare che “volevamo dare un messaggio a Milano con la speranza che We Feed The Planet abbia un riscontro non solo in questi quattro giorni ma che la gente ne parli e dica: ok, abbiamo capito il senso, nell’anno di Expo, in cui tutti quanti parlano di nutrire il pianeta e pochi capiscono veramente come si nutre il pianeta, speriamo di lasciare una miccia nei cervelli delle persone“. Il rapporto con Expo, per Slow Food, d’altronde, è complesso fin dalle origini: “Slow Food non sapeva se partecipare o meno” spiega sempre Giulia “quella terra era agricola che è stata cementificata per creare una cosa temporanea, quindi già solo rispetto al tema Nutrire il Pianeta è un po’ un controsenso, l’incipit era sbagliato”, e aggiunge “il padiglione di Slow Food, che ha deciso di essere presente ad Expo (ma perché, se vuoi essere un virus devi essere nel corpo, non puoi parlare dall’esterno e voler dare un messaggio all’interno) è molto vuoto rispetto al padiglione di McDonald’s che è a 200 metri!”. D’altro canto, le scelte controverse di Expo non si fermano a questo, ad esempio con l’aver optato per sponsor come Coca Cola e McDonald’s: “questo ti fa capire che andiamo in un senso opposto rispetto alla linea ‘slowfoodiana’ e We Feed The Planet nasce proprio per questo”. In risposta alle multinazionali di Expo, i giovani di Slow Food scelgono i piccoli produttori. E non si tratta di una questione meramente produttiva. È, evidentemente, una presa di posizione politica, perché gli small scale producer non sono, spiega Martina, soltanto piccoli produttori, ma sono ”persone che combattono ogni giorno, prima di tutto, per cercare di contrastare e di nuotare contro corrente rispetto al sistema alimentare attuale, e lo fanno con le proprie mani, con le proprie forze, i propri orti, i propri campi, le proprie barche per andare a pesca”.

Nutrire il pianeta per cambiare il pianeta

È questo il senso di far venire a Milano giovani da tutto il mondo per un evento che utilizza i diritti alimentari di chiunque come grande metafora di vita, come metafora dei diritti, e parla del cambiamento delle logiche alimentari come punto di partenza per un cambiamento generale: un cibo più giusto per un mondo più giusto. Non a caso uno dei temi centrali di We Feed The Planet è il diritto al viaggio, fondamentale in un contesto nel quale i rappresentanti provengono da realtà disparate e, come si è potuto capire, spesso complesse. E non posso che ritornare al portavoce dei ragazzi di Slow Food, Joris Lohman, per approfondire le ragioni di questa ulteriore battaglia: “Io sono europeo, quindi è strano per uno come me pensare al diritto al viaggio, perché sono abituato a viaggiare. Ma organizzare quest’evento mi ha aperto gli occhi: noi abbiamo il privilegio di viaggiare. È incredibile che abbiamo così tanti giovani qui, ma ce ne sono centinaia, forse anche più, che abbiamo invitato e hanno cercato di avere un visto che gli è stato negato, e così gli è stato negato il diritto di viaggiare. Io so cosa ha significato per me venire in Italia per vedere questa realtà: ha cambiato la mia vita, ha cambiato il mio modo di guardare il mondo, ha cambiato il mio modo di vivere. Ognuno dovrebbe avare il diritto di viaggiare e di aprire la propria mente, perché sono certo che le persone che si trovano qui torneranno come persone diverse. Sono quindi molto rattristato dal fatto che a molte persone siano stati negati i diritti per ragioni come il fatto che non avevano abbastanza soldi sul conto corrente o per il fatto che i governi temevano non li avrebbero più trovati.” Per ogni singola persona che non può viaggiare, perdiamo tutti: perché quella singola persona non può conoscere e non può far conoscere la propria realtà produttiva, e, il rischio più grosso è questo, potrebbe non riuscire più a produrre il proprio cibo. Smettendo di nutrire il pianeta. E in un pianeta in cui sempre più piccoli produttori devono abbandonare la propria produzione, siamo tutti a pagare le conseguenze. È di nuovo Joris a sottolinearlo, spiegando la missione ultima di We Feed The Planet: “Il modo in cui stiamo organizzando la produzione del cibo oggi sta fallendo. Ovviamente perché non stiamo nutrendo il pianeta per nulla. L’immagine che viene data del nutrire il pianeta, che viene dalle multinazionali, o quello di tipo industriale, è piuttosto arrogante: dicono di nutrire il pianeta ma non lo fanno. Ci sono differenti visioni di come verrà nutrito il pianeta in futuro e non sappiamo come andrà a finire, nessuno lo sa. Ciò che è cruciale per noi è che ci sono persone che nutrono il pianeta, non solo aziende, ed è importante avere un equilibrio tra gli interessi, è importante che i giovani siano interessati a diventare produttori alimentari. Oggi coloro che davvero nutrono il pianeta sono marginalizzati sebbene sia la piccola produzione a nutrire la grande maggioranza, e temiamo di perdere questo modo di vivere. E questo è una tragedia. Non credo che si tratti di scegliere tra una soluzione e un’altra, non si tratta solo di orientarsi verso la piccola produzione o solo verso la produzione di vasta scala, solo tradizione e niente modernità. Penso che servirebbe un’armonia, ma questa armonia attualmente è totalmente inesistente, e noi abbiamo il compito di lottare per i diritti di coloro che oggi sono ai margini, e questo è ciò che vogliamo dire con We Feed The Planet.”
E certamente il messaggio è arrivato forte e chiaro.

Anna Giunchi

Fotografie di Anna Giunchi

Share