Philippe Léveillé, chef d’adozione italiana dal palmarès invidiabile, ci parla del suo libro La Mia Vita al Burro e poi di televisione, amicizie, cucina, e di molto altro.

Un trionfo di stelle, burro e champagne

Origine foto: www.brandedtalents.it

Concesio, 15 ottobre 2015 – Organizzare un’intervista con Philippe Léveillé è semplice: chiamo il suo ristorante ed è lui stesso a concordare con me l’appuntamento. Considerando che parliamo della ‘guida’ del Miramonti l’Altro di Concesio, Brescia, due stelle Michelin, da anni considerato il migliore della provincia e tra i migliori in Lombardia, e de L’Altro di Hong Kong, un’altra stella ottenuta in meno di un anno dalla Bibbia dei gourmet, mi sarei aspettata molta più difficoltà. Certo, la lettura della sua biografia da poco pubblicata, La mia vita al burro, lascia trapelare un Léveillé tutt’altro che difficile e distaccato; così come non lo sembra nella recentissima esperienza televisiva, tra i protagonisti del reality più atipico della televisione, Pechino Express, accanto allo chef Ciccio Sultano. E non solo, non lo è: lo chef, un accento spiccato che nemmeno trent’anni di vita lombarda hanno scalfito, modi gentili e disponibili, è, già dall’altra parte della cornetta, simpatico. Impressione confermata anche quando arrivo al ristorante per l’intervista: Philippe libera un tavolo in un angolo bellissimo, accanto a una grande vetrata che dà su un giardino verdeggiante, e, subito, mi invita a dargli del ‘tu’. Comincia così una lunga conversazione amichevole, a tratti emozionante, spesso molto divertente, che tocca argomenti disparati, il cui fil-rouge resta il cibo, grande metafora di vita. E la prima domanda riguarda questa metafora, espressa in tre ‘marchi’ dello chef bretone: lo Champagne, il burro, e un suo ‘storico’ piatto, il Crescendo d’Agnello.

Un trionfo di stelle, burro e champagne

PL: Lo Champagne è quasi uno stile di vita. Anzi, sono molto contento perché domani sera sarò nominato Gran Cavaliere dello Champagne a Palazzo Parigi a Milano, ed essere riconosciuto come bevitore di Champagne mi fa davvero piacere. Ho sempre amato questo elisir di gioventù: lo Champagne ti fa rimanere giovane, e questo lo garantisco io! Il burro e l’agnello sono piatti che appartengono alla mia carriera, quei piatti che ti identificano, la gente dice: “l’agnello è Léveillé, la cucina di burro a Brescia è il Miramonti L’Altro”. Tu non fai niente perché sia così, ma evidentemente hai fatto qualcosa per loro di molto bello. L’agnello, per esempio, ha una bella storia: era il momento in cui c’era questo agnello che arrivava dalle mie parti che mangia l’erba salata, con un retrogusto di sale, si chiamava pré salé. Tutti si lavavano la bocca con “io faccio il pré salé” e io non volevo fare l’agnello come tutti. Allora io e Mauro (mio cognato) abbiamo cominciato a mettere due o tre cosine. Un giorno è venuto Luigi [si riferisce al compianto critico gastronomico Luigi Veronelli] gli ho presentato il piatto e lui mi ha detto “secondo me questo è un piatto incompleto, continua, metti altre cose: il fegato, la trippa, la lingua, le guance, la coda, i piedi. Fai un crescendo d’agnello!” e il nome lo dà lui. C’erano due nomi, anzi: Le Intimità Dell’Agnello e Il Crescendo d’Agnello, ma ho chiamato Luigi e gli ho detto “Le Intimità forse non è il caso” perché a quell’epoca era un po’ troppo spinto. Adesso lo metterei: è un po’ delirante come piatto…e poi anche io sono un po’ delirante!

CS: Mi fa molto piacere che venga citato Veronelli nel tuo libro, un vero gigante della nostra critica gastronomica…
PL: Lui si sedeva sempre qui: era di casa, e tutte le volte che veniva, questo era il suo tavolo. Lo conosco nell’87 proprio quando sono alle ‘Maschere’ di Iseo, quando lavoravo con Vittorio Fusari. La cosa bella erano, prima di tutto, gli occhi: ti facevano venire voglia di ascoltarlo. Era colto, ma non di quelli che si sentono superiori perché sanno due cose più di te: riusciva ad appassionarti alle cose che raccontava. Facevo la tavolata con tutti i suoi amici, tra cui il dottor Mauro Defendente, che era il suo medico personale e anche curatore della parte medica dei suoi libri: era un silenzio, c’era solo da imparare. Per me è stato il giornalista: se Luigi Veronelli fosse nato nel mio Paese, sarebbe un monumento, qui basta che uno scriva due stupidate su un piatto e diventa il fenomeno (effimero). Ma lui ha segnato una vita, ed è stato un po’ dimenticato. Io non l’ho dimenticato, infatti è l’unico che ho citato nel mio libro del giornalismo italiano.

Un trionfo di stelle, burro e champagne

Origine foto: www.scattidigusto.it

CS: Parlavi di Fusari: di lui cosa mi puoi dire?
PL: Vittorio, sia nella mia vita professionale che nella mia vita personale, è stato un tormento: io ero venuto in Italia per fare sei mesi, un anno, e sono rimasto trentadue! È stato veramente il precursore di tutto quello che ho fatto in Italia, senza di lui io non sarei mai venuto. All’inizio, quando sono arrivato in Italia, mi dicevo: “ma perché sono venuto?!”. Me lo ricordo bene quel giorno, era di una tristezza allucinante: 24 ore prima ero su una spiaggia a Rio de Janeiro, 24 ore dopo, dopo sei anni di Caraibi, sono alla stazione di Rovato [cittadina della provincia bresciana]. Una cosa orribile, sembrava un film di Hitchcock: questa signorina che è uscita da una macchina, nella nebbia, io ho detto “oh, c’è un abitante!”. Poi mi sono abituato alla nebbia, c’è anche nel mio Paese, in Bretagna, non è che l’ho scoperta qui: ma l’avevo dimenticata, e ho dovuto rimettermici dentro!

CS: Ritorniamo un attimo a Veronelli: lui è stato centrale per la storia della cucina televisiva in Italia. Nel libro tu citi Bocuse [probabilmente il più grande chef della storia francese] che ‘scopri’ in televisione da bambino. Che valore avevano questo tipo di personaggi?
PL: Era completamente diverso da oggi. La domenica per mio padre la messa si poteva evitare, ma Paul Bocuse no: alle 12.00 silenzio stampa, tutti zitti a seguirlo; e c’era anche Raymond Oliver, altro grande. Non erano riconosciuti come fenomeni, ma come chef. Il mestiere, in Francia, è visto in tutt’altro modo rispetto a qui: diventare cuoco nelle famiglie francesi è come diventare avvocato, notaio, prete. Quando ho annunciato a mio padre che volevo fare questo mestiere ha fatto una festa, era onorato! Qui in Italia sembra una cosa da stupidi, invece, ma non è così. Adesso, poi, devi sapere, devi informarti, devi leggere, se tu vuoi parlare di un prodotto lo devi conoscere. Oggi i ragazzi sono un po’ travolti dall’idea di fare lo chef: ma non è che ‘fai’ lo chef, forse riuscirai a diventarlo, e dovrai lavorare, ma lavorare tanto! Poi, certo: la vita che faccio adesso è completamente diversa da quella che facevo anche solo vent’anni fa, sono cambiate le cose, sono diventato un po’ imprenditore di me stesso: ho dodici ragazzi in Italia e sedici a Hong Kong che contano su di me, dunque c’è un po’ di senso di responsabilità verso di loro. Ci sono tante sfaccettature, quando lavori con dei ragazzi. A volte lo dico: “non sono né il vostro papà, né la vostra guida spirituale, né uno psicologo”. Ma alle volte lo devi fare, infondo sono persone che mi rappresentano: la persona che gli è più vicino, la persona con la quale secondo loro è meglio confidarsi è quella che li fa lavorare. Quando ero giovane io non avevo una persona su cui potermi appoggiare, mentre per me è giusto non chiudere la porta, anche se a volte dico “voglio andare a casa!”.

CS: A gestire il ristorante di Hong Kong adesso c’è Mauro Zacchetti…
PL: Mauro ha fatto quattro anni con me e io non gli avevo proposto di partire perché è un cambio di vita. Parlando un giorno (perché non riuscivo a trovare la persona che piaceva a me) mi dice “ma lei, chef, non mi ha mai chiesto di partire” “te lo chiedo! Vuoi partire?” rispondo, e lui “io parto domani!” e io “va bene, il posto è tuo!”. Adesso sarà quasi un anno che ‘mena la baracca’ a Hong Kong, ma ha fatto tanti sacrifici: si era appena fidanzato, aveva un bambino in arrivo; una volta arrivato ha dovuto cambiare completamente il suo stile di vita, il suo mondo di cucinare, l’atteggiamento con i ragazzi in cucina. È stato catapultato in una situazione veramente allucinante, ma adesso sta bene.

CS: Come mai ti sei tuffato nell’avventura di Hong Kong?
PL: È stata una cosa velocissima, come piace a me perché io le decisioni le prendo abbastanza in fretta, vivo molto d’istinto, anche con le persone. Se sbaglio la mia valutazione mi spiace, sicuramente nella mia vita ho perso dei treni, ma ne ho guadagnati tantissimi, in questo modo. Mi piace, va bene, parliamone; non mi piace, stai a casa tua, non c’è il feeling. In merito a Hong Kong, tra l’apertura e la firma del contratto sono passati forse novanta giorni: novanta giorni prima non sapevo che avrei aperto un ristorante a Hong Kong, novanta giorni dopo apro un ristorante a Hong Kong che dopo quasi un anno prende una stella Michelin! Un bombardamento di cose belle, non capivo niente, è stato un grandissimo momento. Là è una sfida perché c’è una concorrenza folle: non puoi mai sederti, il menu dev’essere sempre aggiornato perché la gente si stufa subito. Bisogna sempre…non dico stupire, ma sempre cambiare.

CS: A proposito di stupire, tu, nel libro, critichi quelli che definisci ‘cheffoni’, cuochi che devono per forza stupire: è così presente, oggi, la voglia di stupire, nella cucina?
PL: Prendiamo un Massimo Bottura: lui non è uno ‘cheffone’, fa una cucina pensata, strutturata, allenata, metodica. Gli ‘cheffoni’ sono quelli che scopiazzano. Hanno poca vita, sono effimeri. Ma nel momento in cui esistono ti rubano i clienti, non li rispettano e non rispettano il mio lavoro, perché non è il loro lavoro: sono dilettanti che giocano con i professionisti, con chef del calibro di Scabin, di Cuttaia, di Ciccio Sultano. Sono andato da Ciccio Sultano e ho mangiato delle cose allucinanti, che a guardarle da fuori uno dice “ma questo piatto è semplice”: ho capito, ma lo sai fare?! Studiare un piatto che diventa così perché lo pensi, lo assaggi e poi dici “adesso sono arrivato alla cosa che volevo io”: questo è uno chef, uno che capisce cosa sta facendo. Adesso ci sono dappertutto questi schizzi, il verde, il blu, l’arancione, non capisci neanche cosa sono: l’ha fatto una volta il maestro Marchesi e adesso tutti a fare le strisce! Ma lui questo piatto l’ha pensato, non è che un giorno si è alzato e ha detto: prendiamo le salse e facciamo un quadro. I parassiti devono essere demoliti, mentre quando vedo tantissimi professionisti che stanno nascendo sono molto contento: più ci sono ristoranti di grande valore, più la gente sentirà parlare della regione e verrà. Come qui: il bresciano adesso è un bellissimo ambiente, ci sono tanti giovani chef che stanno crescendo bene.

CS: Ad esempio qui a Brescia c’è l’unico ristorante con un tavolo, di un giovane, Andrea Mainardi
PL: Sì, ci conosciamo, anche lui è un grande professionista: è uno che si diverte, è folle, ed è giusto così! Siamo due persone che fanno lo stesso mestiere ma in maniera completamente diversa e ho un grande rispetto per lui, è veramente un grande chef: molto giovane, molto spiritoso e pazzo, ma una pazzia bella, e mi piace questa cosa. Ritorna quello che dicevo: siamo a dieci chilometri uno dall’altro, due stili completamente diversi, ma due professionisti.

CS: Prima parlavi di Ciccio Sultano: non posso non chiederti della tua esperienza con lui a Pechino Express.
PL: Vado a prendere una cosa e ti faccio vedere perché Ciccio Sultano.
Si alza e va a cercare qualcosa nella zona dell’ingresso. Nel frattempo, ho modo di capire quanto questo ristorante rispecchi il suo chef: è elegante ma tutt’altro che pretenzioso, ritirato ma ospitale. Dopo qualche minuto Philippe torna con un grande libro dalla copertina blu, Beyond the Chef.

Un trionfo di stelle, burro e champagne

Origine foto: www.cicciosultano.it

PL: Questo è un libro del fotografo Gianni Rizzotti. È su noi chef: c’è una ricetta ma non si parla di cucina, si parla di chi siamo attraverso le foto, delle nostre passioni…

Mentre ne parla, sfoglia: si succedono immagini che vanno da Heinz Beck a Davide Oldani, da Anthony Genovese a Moreno Cedroni. E naturalmente c’è lui, Philippe Léveillé: si trova, strano scherzo del destino, proprio dopo la parte dedicata a Ciccio Sultano.

PL: Noi non ci conoscevamo molto, ci siamo visti una volta due o tre anni fa. Poi sono stato contattato per la Rai dalla Magnolia, mi chiedono “Philippe, ti piacerebbe fare Pechino Express? Niente provino, tu entri diretto perché ti abbiamo già visto e passi bene. Però ti serve un compagno, trovalo tu”. Serviva una persona che piacesse anche a me, e quando comincio a cercare c’è questo libro sulla scrivania. Ci sono due fotografie che mi piacciono particolarmente: questa mano [mi mostra una fotografia che ritrae la mano di Ciccio Sultano immersa nella terra] e questa mano [la mano di Gualtiero Marchesi, al pianoforte]. Ma al signor Marchesi non potevo chiedere di venire a Pechino Express, mi avrebbe detto “ascolta, lascia perdere, non vengo a fare queste stupidate!”. Allora ho chiamato Ciccio: lui mi risponde “guarda, ci devo pensare, devo aprire un locale” (il locale era I Banchi, che ha aperto quest’estate); venti minuti dopo ci aveva già pensato e ha detto “dai, partiamo insieme!”. Era bello perché erano le due punte: la Bretagna e la Sicilia; io alto, lui piccolino (certo, siamo piazzati tutti e due!). Non siamo neanche riusciti a litigare, abbiamo avuto sempre un grande feeling, quando uno cominciava ad agitarsi l’altro cercava di calmarlo. Un bel viaggio!

CS: Tu hai fatto anche una ‘comparsata’ a Masterchef: in quella puntata te la sei presa tantissimo con un concorrente, Federico Ferrero, che tra l’altro poi ha vinto. Leggendo il libro ho capito perché: aveva sprecato del cibo…
PL: Mi ha fatto ancora più arrabbiare questa cosa: ha anche vinto, questo stupidotto. Il giorno in cui c’era stata la distribuzione dell’umiltà lui era mancato: mi ha detto, quando doveva presentare il suo lavoro, “questo è il mio piatto” io ho risposto “questa è l’autopsia di un piatto, non è un piatto”, non si vedeva niente! Durante la trasmissione, non si vede nella puntata, loro fanno il piatto e poi vanno via, quindi la giuria passa. Vedo questo piatto, lo osservo e faccio anche un complimento: “non c’è niente da mangiare ma è carino!”. Però ero davanti al banco. Passando dietro guardo nel bidone dell’immondizia e vedo il burro buttato, le rane fresche buttate…al di là della trasmissione: ma come ti permetti?! Questa è materia prima! Allora mi sono infuriato, nel programma hanno tagliato tanto perché l’ho completamente demolito. Non ce l’avevo con lui personalmente, ma dopo lui voleva anche giustificarsi: ma cosa vuoi giustificarti?! Hai fatto una stupidata, inventati qualcosa e calma la persona che ti sta davanti. No no, lui ha risposto. Sono diventato una furia, l’ho cacciato via, gli ho detto “quella roba lì non la assaggio neanche!”.

CS: È perché nella tua vita tu hai avuto esperienze che ti anno segnato molto da questo punto di vista.
PL: In Etiopia, in Somalia, in Yemen, a Gibuti. Soprattutto a quell’età (avevo ventuno anni) non ero preparato: a livello psicologico ‘molli’, piangi sempre, vai in depressione e non te ne accorgi neanche, te ne accorgi nel momento in cui hai del cibo per te, ti dici “io non posso mangiare qui mentre dall’altra parte della tenda c’è gente che non mangia e muore di fame”. Per un anno, dal ritorno, ho sofferto, non potevo entrare in un ristorante, non potevo entrare in un supermercato, piangevo sempre! Poi c’era questa storia, non so se l’ho scritto nel libro [ndr non l’ha scritto]: per due anni ho sentito, in Africa, il rumore del ventilatore a pale, e quindi non riuscivo a dormire, senza. Allora, in pieno inverno, in Bretagna, con il freddo, usavo il ventilatore! Certo, è un momento passato, ma lo spreco di cibo non lo posso sopportare tuttora, divento molto cattivo.

CS: Parlando di cibo, nel primo capitolo del libro tu ci parli della relazione tra tua madre, tuo padre e il cibo…
PL: Mio padre era una persona molto onesta, ma molto severa, soprattutto con i figli (meno con me perché ero il più piccolo). Ha avuto una vita veramente molto complicata, ha dovuto combattere con il suo handicap fisico, ma si è anche inventato un mestiere che lo gratificava [a seguito di un incidente diventa paraplegico, ma questo non gli impedisce di avviare un’impresa di raccolta di ostriche]. Da bambino io ero appassionato del mio papà, era il mio super eroe, ora che sono diventato adulto dico ‘chapeau’ a mia mamma, che ha saputo fare delle cose di cui, all’epoca, non mi rendevo conto: ero un bambino, un adolescente, e giustamente non riesci ad accorgerti di cose del genere. Ha fatto veramente una vita di sacrifici, per noi. Ma voi donne siete forti! Adesso lavoro con tante donne, ma non le volevo all’inizio, poi ne è arrivata una, e ho pensato: è anche brava, pensa te…Ero davvero un maschilista! Adesso sono sette. A volte, la domenica, quando non c’è il mio secondo, tra le ragazze in cucina e in sala sono l’unico maschio. E a malincuore [ride] dico: avete una marcia in più!

CS: Parliamo della tua cucina: una cosa che si sente molto è il godimento, la gioia…
PL: A volte ci sono dei ristoranti dove si parla a voce bassa…mica è una chiesa! Se non godi quando mangi che vita è?! E poi io ho la fortuna di fare quello che mi piace, ci sono un sacco di progetti che ho in programma, un bel progetto che si sta mettendo in piedi a Milano, Hong Kong che funziona bene, il libro, la trasmissione…Non ho mai chiesto niente, è la gente che è venuta da me. Il libro, per esempio: Bolasco, della Giunti, viene e mi dice “ma tu sai che sei l’unico due stelle Michelin che non ha scritto un libro?” e io “perfetto, rimarrà così, Philippe Léveillé non ha scritto un libro di cucina!”. Ma alla fine mi convince e mi metto a scrivere, a penna, perché io faccio fatica con le tastiere. Io scrivo molto strano perché scrivo un po’ in italiano, un po’ in francese: la prima bozza era veramente orribile! Allora lui mi dice “cerca un filo conduttore: cosa ti piace di più, nella vita?”: mi suggerisce le donne (ma non posso parlare delle donne, sono sposato…e poi adesso che non sono più maschilista, non si può fare!) le macchine (a me non frega niente delle macchine) poi il cibo (va beh, sì). Alla fine dico “Philippe Léveillé e il burro!” “Ah, bell’idea” mi dice “comincia!”. E allora ho scritto il primo capitolo, sulla mia famiglia: l’ho fatto leggere alla direzione della Giunti e mi hanno detto “va bene, vai avanti!”.

CS: Tu dici spesso che le critiche di chi ti è vicino ti aiutano come chef…
PL: La persona che mi critica di più è mia moglie: quando mangia vedo già la faccia, capisco subito se le piace o no. Se non le piace io mi offendo subito, penso “non capisce niente”; poi lo assaggio, mi ricordo le cose che mi ha detto e dico “porca miseria, ha ragione!”. È sempre stato uno scambio importante e lo è tuttora perché mi aiuta a controllare la mia follia…Le persone sono importanti da questo punto di vista, anche i miei clienti: nel libro scrivo di questi miei clienti davvero intimi, Fausto e Gino, con loro ho capito l’importanza di ascoltare una critica. La prima perdita è stato il signor Gino, e poi il signor Fausto: se ne sono andati dopo poco tempo l’uno dall’altro. Una cosa davvero devastante. Ma alla fine sono contento perché sono ancora insieme tutti e due, va bene così: chissà cosa bevono ora! La stessa stoffa di Luigi Veronelli e Mauro Defendente: persone che hanno segnato la mia vita, persone impossibili da dimenticare.

CS: Parliamo di Mauro Defendente: lo citi spesso, è autore del saggio finale del libro…[un delizioso trattatello su Sua Golosità del Burro]
PL: Mauro per me è una lezione di vita, è una persona che ha una malattia molto molto grave. Noi ci sentiamo, quasi tutti i giorni, e lui chiede a me come sto: lo chiede a me, e questo è pazzesco. Dieci giorni fa era qui, e io so che sforzo fa per venire: poi per tre, quattro giorni, deve riposare, è veramente uno sforzo immenso. Ci conosciamo da più di vent’anni, ho conosciuto Mauro prima di questa ‘brutta bestia’ e provavo già questo sentimento per lui. Anche ora sarei capace di litigare con Mauro: io parlo all’uomo, non alla malattia. Certo, ho un riguardo per un sacrificio, ma sono due cose ben diverse. Abbiamo questo rapporto che è al di là dell’amicizia, per adesso questo sentimento l’ho provato solo per lui nella mia vita. Sai, scrivendo il libro, ho scoperto il sentimento di piangere. Io non piango mai: ho pianto quando è morta mia mamma, non ho pianto quando è morto mio papà. Ma scrivendo ci sono stati dei momenti in cui ho dovuto smettere di scrivere per due o tre giorni perché ero troppo sconvolto. Con Mauro è la stessa cosa: è un sentimento che non avevo mai provato prima per una persona.

CS: Tu a un certo punto dici che scrivi cose che non hai mai raccontato e le dici a persone che non conosci e che non conoscerai probabilmente mai…
PL: Non lo so perché l’ho fatto. Sono stato molto molto male, mi sono fatto tantissime domande, prima dell’uscita. La gente sa come sono, è difficile che io racconti, anzi, non è che è difficile: io non racconto mai niente! C’è gente che mi ha detto “forse è arrivato il momento di vuotare il sacco”. Sì, beh, ci sono tante cose che potrei dire allora per ‘vuotare il sacco’, sarebbe tremendo! [ride di cuore] Non lo so, forse mi sono auto convinto che era giusto farlo in quel momento. So che sta andando alla grande perché la Giunti mi informa, mi sembra che faranno la seconda stampa: per uno che non sa scrivere non è male!

CS: Tu hai cucinato per moltissime persone famose: da Miss Asia, al Papa fino a Brad Pitt e Angelina Jolie. Però hai cucinato anche per i bambini in un ospedale nel Brasile, hai cucinato nei Paesi poveri. Se dovessi chiederti, a bruciapelo: qual è l’esperienza che ti viene in mente per prima, cosa mi racconteresti?
PL: Una cosa che è successa a Pechino Express. Siamo a 3800 metri di altitudine, ogni due respiri si perde un colpo, è normale, fai fatica a respirare. Riusciamo a trovare da dormire in una casa più che modesta, io pensavo fosse la stalla. C’erano il papà, la mamma, due bambini e un piccolino infagottato dietro la schiena della signora: per metà della giornata non avevo neanche capito che era un bambino, pensavo avesse la gobba! La cena viene cotta in una padella che neanche al mio cane: mettono le fave, le patate, poi dopo le uova, versano tutto e mangiamo per terra. Poi è arrivato il signore con un sacchettino che sembrava come oro: era sale. E ha salato lui. Sembrava che per lui fosse la giornata più bella della sua vita perché aveva ospiti. È stato un momento di grande rispetto perché si vedeva che loro hanno erano veramente affascinati da noi e poi c’era questa condivisione di un cibo proprio basilare. È stato veramente un bel ritorno al cibo.

CS: Io devo per forza farti una domanda sulle stelle Michelin: che valore hanno, per te?
PL: Ho avuto la fortuna di ottenerle due volte: la seconda stella qui (la prima c’era già quando sono arrivato) e la prima a Hong Kong. Ti ricordi per tutta la tua vita il giorno in cui ti capita, una sensazione che non so se si può raccontare: qui (sono passati un po’ di anni ma me lo ricordo) l’ho saputo al telefono, un paio di ragazzi si sono messi a piangere, erano felici per me. E poi, costruire un ristorante da zero a Hong Kong con la cucina italiana fatta da un francese che piglia una stella…sono emozioni. È anche la scuola dell’umiltà: devi essere orgoglioso anche se capita a un collega, perché in quel momento si dà ancora più valore alla tua cucina. Chi dice “ma lui non la merita” è un grande disonesto e un grande cafone: ma tu chi sei per dire che non la merita?! Allora, forse, neanche tu la meriti! Fa parte di quello che dicevo prima: più ci saranno stelle Michelin in Italia, più si consolida quest’energia di cucina buona. A tutto campo, non è che uno deve guardare lo stile, avere il proprio stile va benissimo! Tu puoi essere Bottura o fare la cucina siciliana a Ragusa, siete due che hanno portato delle stelle Michelin. Più siamo a far bene e a essere riconosciuti meglio è per noi stessi, e questo è un po’ difficile da far capire in Italia. Però secondo me con queste generazioni più giovani c’è un po’ più di apertura. Noi adesso siamo vecchi, dobbiamo farci da parte: io amo il mio mestiere, ma c’è un momento in cui prenderò la giacca e la appenderò! Poi, non lo so, prenderò mia moglie, il mio cane, e andrò a fare il giro del mondo in barca vela.

CS: Dici che ogni chef deve avere un proprio stile: è come dire che in qualche modo la cucina è una sorta di mezzo di comunicazione…
PL: A volte mi chiedono qual è la mia filosofia di cucina: io sinceramente una filosofia di cucina non ce l’ho. Voglio che la gente, quando esce dal mio ristorante, sia felice, abbia passato un bel pomeriggio, abbia mangiato bene. Se deve esserci un messaggio, è questo. Ma la filosofia del “devi mangiare così” è una cosa che odio: vieni a casa mia, mangi come vuoi! Io al ristorante voglio godere, io e Daniela (mia moglie) qui non vogliamo infastidire con un bla bla bla che non serve: se tu mi chiedi di spiegare, te lo dico, ma non è che sto io a dirti le cose, chi se ne frega! Ho la sensazione che si tratti di un voler, a volte, vendere tante parole, a volte si racconta dei piatti che hanno quel nome, pescato da chissà chi, nel tal mare, uno dice: “ma possiamo mangiare?! Perché si raffredda!”

Un trionfo di stelle, burro e champagne

Origine foto: www.college-culinaire-de-france.fr

CS: Dal libro si capisce che per te la cucina è rito e insieme godimento. Sono aspetti importanti?
PL: Completamente. Ti dico questo: io non faccio mai previsioni su quello che farò domani o dopo; l’unica cosa che so è che il 7 dicembre sono da Joël Robuchon a Parigi a mangiare a mezzogiorno. E solo a pensare a questo sono felice! Sono andato mille volte lì a mangiare, ma ogni volta è come la prima. È una cosa a cui tengo tantissimo e le persone che mangiano con me provano la stessa goduria nei confronti del cibo.

Ndr. Per capire l’ultima domanda bisognerebbe aver letto il libro, ma la faccio lo stesso. Sarà un po’ retrò, ma spero che la curiosità costituisca un invito a leggere “La mia vita al burro”. Ne vale davvero la pena.

CS: Mangerai il purè, da Robuchon?
PL: Certo, subito! L’ultima volta l’abbiamo preso tre volte: all’aperitivo (ovviamente con lo champagne) con un piatto di quaglie, poi, finito il dessert, abbiamo detto “monsieur Robuchon, possiamo avere un po’ di purè?”. E così, dopo il dessert ci ha dato il purè. Un trionfo di purè, di burro…viva il colesterolo!

 

Anna Giunchi

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